"Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente;
anche la prima pioggia l'ammanta di benedizioni."
Sal 84,7

venerdì 18 febbraio 2011

Preti e cittadini


Commissione presbiterale italiana, 17 febbraio 2011


Mariano Crociata

Ho voluto intitolare così questo intervento, sullo sfondo della situazione della Chiesa in Italia, non perché sia il tema più urgente o quello che più di altri risponda alle esigenze del momento, ma solo in ragione di due circostanze che suggeriscono una riflessione su un ambito di costante interesse e dalle implicazioni rilevanti anche in un tempo come il nostro. Le due circostanze a cui mi riferisco sono gli argomenti all’ordine del giorno del Consiglio permanente della CEI di fine gennaio e la prossima celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.
A mo’ di digressione devo peraltro notare che la riunione del Consiglio permanente segnala argomenti rilevanti per la vita della Chiesa, primo fra tutti la presentazione e la recezione degli Orientamenti pastorali per il decennio, i quali sono già stati oggetto di dibattito in questo incontro della Commissione presbiterale e torneranno all’attenzione dei Vescovi nella prossima assemblea di maggio; e poi anche il prossimo Congresso eucaristico di Ancona e la situazione dei seminari.
Uno dei temi del Consiglio a cui mi riferisco – insieme al quale bisogna ricordare anche il documento conclusivo della settimana sociale di Reggio Calabria – portava il titolo: “Ricognizione sulle esperienze di formazione socio-politica di ispirazione cattolica e prospettive per il futuro”. Non è mia intenzione ripercorrere l’esposizione e il dibattito che si è svolto in quella circostanza – comunque incoraggiante un impegno  crescente dell’opera formativa in sintonia con i richiami del Santo Padre Benedetto XVI e, successivamente, del cardinale Angelo Bagnasco sulla necessità di una nuova generazione di cattolici in politica. Voglio piuttosto lasciarmi sollecitare dalla domanda sulla responsabilità civica del prete, sul modo in cui si possa e si debba essere simultaneamente prete e cittadino. Nessuna pretesa di entrare nel merito delle grandi questioni che sono sottese a un tale quesito già di per sé abbastanza complesso; soltanto un avvio di riflessione di tipo pastorale e spirituale.
Potrà apparire una provocazione, ma l’indicazione positiva, anche se indirettamente, e più netta al riguardo la trovo nel Codice di diritto canonico. Il comma 3 del canone 285 prescrive: «È fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile». Al comma 2 del canone 287, poi, si aggiunge: «Non abbiano parte attiva nei partiti politici». Non c’è dubbio che si tratti di indicazioni negative e limitative, dalle quali il discorso apparirebbe chiuso ancor di prima di venire avviato. A un primo sguardo non sembrerebbe esserci compatibilità, o addirittura rapporto, tra il ministero presbiterale e l’impegno civico. Certo non è escluso tutto ciò che sta prima e oltre l’assunzione di un ufficio pubblico e di un impegno partitico diretto, e non è poco, poiché tali assunzioni e impegno sono una espressione eminente e compiuta di responsabilità civica, significativa espressione del diritto e del dovere di cittadinanza, verso cui, del resto, lo stesso magistero non esita a incoraggiare.
La positività intrinseca a tali divieti emerge, seppure indirettamente, dal senso non sacrale ma sacramentale del ministero ordinato propriamente inteso in orizzonte ecclesiologico. Dico senso non sacrale – senza in nulla sminuire il valore antropologico del sacro – solo per precisare che non è la polarità sacro-profano a motivare quella proibizione, poiché essa in Cristo è stata superata. Cristo Gesù, con la sua incarnazione e soprattutto con la sua morte e risurrezione, ha abbattuto ogni confine (cf. Ef 2,14) trasformando la storia in spazio della santità. Alla polarità sacro-profano è subentrata quella tra santità e peccato. E santità è categoria eminentemente personale; le persone vengono santificate – poiché non possono diventare sante da se stesse – e con la loro esistenza possono trasformare e – in senso derivato – santificare il mondo, la storia.
Ma la santificazione non raggiunge gli individui isolatamente, anche se sempre personalmente, poiché la santità nasce nella storia come evento comunitario, come evento di Chiesa; la santità affiora nella storia nella forma della Chiesa, alla quale viene aggregata una moltitudine crescente di credenti. Questo modo di essere e di venire al mondo mostra della Chiesa la costituzione misterica, di sacramento, di presenza inseparabilmente umana e divina. Questa natura originaria, e la missione che coerentemente le afferisce, non consente in alcun modo alla Chiesa – in «non debole analogia» con il mistero del Verbo incarnato, come si pronuncia la Lumen gentium al n. 8 – di ridurre o, addirittura, cancellare né la dimensione divina né quella umana. In un equilibrio difficile ma possibile per grazia, la Chiesa vive la sua presenza nel tempo proiettata e, in qualche modo, già partecipe dell’eternità. Questo significa il carattere escatologico della Chiesa. Essa non si può ridurre a una grandezza sociale e storica tra le altre, ma non si può nemmeno esonerare dal suo radicamento storico-sociale e dal suo compito di evangelizzazione e di santificazione. Nel suo carattere di segno e anticipazione del compimento dell’unità del genere umano in sé e con Dio (cf. Lumen gentium, n. 1), essa non può rinunciare a operare affinché questo mondo sia trasformato dalla potenza dello Spirito del Risorto, così da vedervi radicare e crescere i germi della verità e della vita, della giustizia e della pace.
Missione della Chiesa è annunciare Cristo e testimoniare e assecondare gli effetti della sua trasformante presenza nelle persone, nelle comunità, nella società intera. Fa parte della sua missione istituire spazi e diffondere motivazioni e convinzioni che manifestino luoghi di umanità redenta, anticipazioni del Regno che viene. In questa prospettiva si colloca, senza riduzionismi sociologici ma con una costitutiva apertura escatologica, l’insegnamento sociale della Chiesa. Esso non è lo strumento per la creazione di una società cristiana, ma l’espressione della potenzialità del Vangelo di rendere più umano il mondo aprendo il cuore dell’uomo e l’intero ambiente sociale all’orizzonte di Dio. In questo senso ciò che la Chiesa cerca non è diventare una forza alternativa o una proposta organizzativa specifica della società rispetto ad altre, ma piuttosto contribuire al bene intero della persona e della società coinvolgendosi fino in fondo ma, nello stesso tempo, mantenendo una riserva critica che non è opposizione all’uno o all’altro sistema, bensì distanza sistematica da ciò che non può mai assumere valore assoluto, perché relativo e contingente nella ricerca umana di una soluzione sempre migliore circa il modo di organizzare la vita dell’uomo nel mondo.
Come si colloca il prete in questa visione delle cose? Direi, molto semplicemente, come uomo sacramentalmente assorbito dall’identità ecclesiale e dalla sua missione, così da diventarne, sempre in relazione a Cristo, l’espressione fedele e la manifestazione personale visibile e riconoscibile. In questo senso possiamo fare uso delle categorie dell’agire in persona Ecclesiae e in persona Christi. Nel suo agire agisce la Chiesa intera, agisce Cristo Gesù in persona; e precisamente nel suo agire di pastore che annuncia e insegna, che celebra e santifica, che guida e coordina nella carità. Allora la massima efficacia della presenza e del servizio del prete in ordine alla cittadinanza sta nel contribuire a far crescere cristiani e comunità in cui si riconosca la verità e il bene delle persone e della società tutta: cristiani come cittadini esemplari, comunità come ambienti sociali in cui la ricerca del bene comune, i valori della solidarietà e della sussidiarietà sono realtà in qualche modo tangibili attraverso la coscienza delle persone e nell’impronta fondamentale delle relazioni interpersonali, nella loro capacità di innervare spazi sociali sempre più ampi.
Mi piace citare, a questo proposito, il documento Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, che ben esprime questa visione di fede e di Chiesa che vive nella storia: «Le comunità cristiane costituiscono un inestimabile patrimonio e un fattore di sviluppo e di coesione di cui si avvale l’intero tessuto sociale. Lo sono in quanto realtà ecclesiali, edificate dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia e dalla comunione fraterna, dedite alla formazione delle coscienze e alla testimonianza della verità e dell’amore. Fedeli alla loro identità, costituiscono anche un prezioso tessuto connettivo nel territorio, un centro nevralgico di progettualità culturale, una scuola di passione e di dedizione civile. […] È questo il primo, insostituibile apporto che le Chiese nel Sud hanno da offrire alla società civile» (n. 14). Le comunità cristiane che nascono secondo il Vangelo da un senso autentico di Chiesa diventano come dei consistenti nodi di incrocio di una rete che si estende e arricchisce la società di senso cristiano della vita e indivisibilmente anche di senso civico. Da lì scaturiscono anche vocazioni alla politica, perché proprio di vocazione si tratta quando una coscienza credente si sente toccata dalla chiamata alla responsabilità della cosa pubblica per la promozione del bene comune. Quale contributo alla cittadinanza maggiore di quello che viene dalla crescita di simili comunità? Quale cittadino più incisivo di un prete che costruisce nuovo tessuto cristiano, e per ciò stesso nuovo tessuto umano e sociale? La conclusione che traggo allora è che un prete mostra al più alto grado la sua qualità di cittadino attivo e responsabile quanto più e meglio è e fa il prete.
Vorrei completare la mia riflessione citando un discorso del Papa, facendo una applicazione alla nostra condizione attuale e indicando un ambito di riconoscibile unità.
Il discorso del Papa che vorrei citare è quello per gli auguri natalizi del 21 dicembre 2009. Benedetto XVI riprende il Sinodo dei Vescovi dell’Africa di qualche mese prima e osserva: «Compito dei Vescovi era di trasformare la teologia in pastorale, cioè in un ministero pastorale molto concreto, in cui le grandi visioni della Sacra Scrittura e della Tradizione vengono applicate all’operare dei Vescovi e dei sacerdoti in un tempo e in un luogo determinati. Ma in questo non si doveva cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche. In effetti, la questione molto concreta davanti alla quale i pastori si trovano continuamente è, appunto, questa: come possiamo essere realisti e pratici, senza arrogarci una competenza politica che non ci spetta?» E prosegue chiedendosi: «Sono riusciti i Padri Sinodali a trovare la strada piuttosto stretta tra una semplice teoria teologica ed un’immediata azione politica, la strada del “pastore”? Nel mio breve discorso a conclusione del Sinodo ho risposto affermativamente, in modo consapevole ed esplicito, a questa domanda. […] Si potrebbe dire che riconciliazione e giustizia siano i due presupposti essenziali della pace e che quindi definiscano in una certa misura anche la sua natura. Limitiamoci alla parola “riconciliazione”. Uno sguardo sulle sofferenze e pene della storia recente dell’Africa, ma anche in molte altre parti della terra, mostra che contrasti non risolti e profondamente radicati possono portare, in certe situazioni, ad esplosioni di violenza in cui ogni senso di umanità sembra smarrito. La pace può realizzarsi soltanto se si giunge ad una riconciliazione interiore [… a ] processi interiori di riconciliazione, che hanno reso possibile una nuova convivenza. Ogni società ha bisogno di riconciliazioni, perché possa esserci la pace. Riconciliazioni sono necessarie per una buona politica, ma non possono essere realizzate unicamente da essa. Sono processi pre-politici e devono scaturire da altre fonti.» E conclude su questo punto: « Questa riconciliazione, però, richiede l’ampio “atrio” del riconoscimento della colpa e dell’umiltà della penitenza. Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che proprio per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica. Se non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all’impegno politico per la pace il presupposto interiore. […]  Ma tale purificazione e maturazione interiore verso una vera umanità non possono esistere senza Dio». Si tratta di una esemplificazione illuminante circa l’efficacia politica della presenza pre-politica della Chiesa e dei suoi pastori.
Una seconda considerazione la vorrei svolgere in riferimento alla condizione attuale. Intendo per condizione attuale il legittimo pluralismo della opzione politica dei cattolici che si è determinata da circa due decenni a questa parte. Non intendo in alcun modo entrare nel merito della valutazione del sistema politico determinatosi e delle sue implicazioni. Intendo semplicemente constatare che la legittima opzione politica plurale determina una situazione in cui la distinzione tra appartenenza ecclesiale unitaria e frammentazione di opzione politica possono determinare effetti di conflittualità e al limite di reciproca esclusione e quasi delegittimazione dentro le realtà ecclesiali. Qui si coglie per un verso il rischio a cui è esposta la comunità cristiana e il ministero del presbitero, ma in positivo si evidenzia l’appello alla responsabilità pastorale e al suo compito educativo in questo tempo. Intuiamo prontamente quanto sia necessaria la capacità dei preti di non diventare strumento di divisione e di contrapposizione all’interno della comunità, ma al contrario segno di unità attorno a ciò che ci costituisce come credenti e come Chiesa, e quindi attorno a ciò che comunque ci deve vedere uniti anche nell’ambito sociale e politico.
Qui torna opportuno il richiamo – e siamo al punto conclusivo – sull’insegnamento sociale della Chiesa. C’è uno spazio di valori  e di principi sul quale non può non esserci concordia tra tutti i credenti al di là delle appartenenze e delle militanze attive e di responsabilità degli schieramenti politici. A partire dall’idea del bene comune, il cui perno è la dignità intangibile della persona umana, il credente si ritrova sempre come espressione indivisa di una comunione ecclesiale integra e di solidarietà umana senza confini. All’interno dell’insegnamento sociale della Chiesa, in particolare nella sua formulazione dell’enciclica Caritas in veritate al n. 15, va trovato il criterio per promuovere l’unità trasversale dei cattolici in ambito sociale e politico, e quindi un punto di riferimento specifico per il servizio pastorale dei presbiteri nelle nostre comunità. Scrive il Papa nella sua enciclica: «La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza che non può “avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”». Si tratta di un plesso di valori indivisibili, e tuttavia con un ordine gerarchico interno che vede al primo posto i cosiddetti valori non negoziabili. Il senso di questo ordine gerarchico va rettamente inteso, pena il fraintendimento di tutto l’insegnamento. Non si vuole infatti attribuire minore dignità e importanza all’etica sociale; si intende invece riconoscere che quando si tratta della vita è in gioco un bene la cui compromissione, diversamente da altri beni, è irreversibile e toccando il quale si infrange l’ultima barriera dell’umano (cf. card. Angelo Bagnasco, Prolusione, 8 novembre 2010). Alla luce di questa coscienza diventa possibile non tenere divisa, ma unita la difesa della persona umana e di tutti i suoi valori.
Di qui la portata civica e, perché no?, storica della nostra presenza e del nostro servizio ministeriale. 

Fonte tratta da www.chiesacattolica.it

giovedì 17 febbraio 2011

Storia dei Passionisti


La Congregazione della Passione di Gesù Cristo 
(in latino: Congregatio Passionis Iesu Christi) è un istituto religioso maschile di diritto pontificio: i membri di questa congregazione clericale, detti Passionisti, 
pospongono al loro nome la sigla C.P.

Cenni storici 

La congregazione venne fondata da Paolo della Croce (1694-1775), al secolo Francesco Paolo Danei: ebbe dapprima l'idea di ritirarsi in un eremo per condurre una vita di preghiera e penitenza, poi pensò di organizzare una compagnia di chierici, chi intendeva chiamare Poveri di Gesù, con il fine di "promuovere nelle anime il santo timor di Dio".

Il 22 novembre 1720 (il giorno successivo alla festa della Presentazione di Maria) 
Paolo ricevette dalle mani del vescovo di Alessandria, il barnabita Francesco Arborio Gattinara, l'abito che sarebbe diventato quello della sua congregazione 
(nero, in segno di lutto in memoria della passione e morte di Gesù). 
Il fondatore si ritirò quindi nella chiesa di San Carlo al Castellazzo dove si dedicò alla stesura delle regole della sua compagnia.

Nel 1725 papa Benedetto XIII concesse a Paolo della Croce l'autorizzazione a riunire una comunità e nel 1728, in un "ritiro" sul monte Argentario, presso Orbetello, radunò i suoi primi compagni: tra essi, Giovanni Battista di San Michele Arcangelo 
(fratello minore di Paolo) e Giacomo Ganiel di San Luigi.

Papa Benedetto XIV, con rescritto del 15 maggio 1741, approvò le regole della congregazione, che affidavano ai religiosi la predicazione delle missioni popolari e dei ritiri soprattutto nelle zone più abbandonate e insalubri, e l'11 giugno successivo Paolo e i suoi primi tre compagni emisero la loro professione dei voti semplici.

La congregazione, detta dei Chierici scalzi della Santissima Croce e Passione 
di N.S. Gesù Cristo (il titolo venne cambiato in quello attuale nel 1970), 
venne approvata in forma solenne da papa Clemente XIV con la bolla Supremi Apostolatus del 16 novembre 1769.

Alla sua morte, Paolo della Croce lasciò dodici case (dette ritiri) tutte in Lazio 
(a eccezione di quella sul monte Argentario).

Nel 1781, raggiungendo la Bulgaria, i passionisti iniziarono a dedicarsi alle missioni estere.


Soppressione e restaurazione

La congregazione venne soppressa da Napoleone nel 1808 ma sopravvisse clandestinamente. Fu il primo istituto a essere ristabilito (26 giugno 1814) dopo il ritorno di papa Pio VII a Roma: il pontefice dimostrò ulteriormente il suo particolare legame con i passionisti con la bolla Gravissimas inter curas del 5 agosto 1814, con la quale confermò l'approvazione fatta dai suoi predecessori della congregazione e se ne dichiarò particolare protettore.

Particolarmente significativo per la storia dei passionisti fu il lungo generalato di Antonio Testa (1839-1862), sotto il quale i religiosi aprirono filiali in Francia, Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Irlanda, Australia e nelle Americhe.


La Spiritualità Passionista 

La spiritualità passionista è incentrata sul mistero della passione e morte di Gesù vista come manifestazione suprema dell'amore infinito di Dio per gli uomini: i passionisti si impegnano mediante un quarto voto alla propagazione della devozione a tale mistero.

La struttura giuridico canonica della congregazione è affine a quella degli ordini mendicanti e degli ordini di chierici regolari.

Paolo della Croce venne beatificato nel 1853: papa Pio IX lo proclamò santo il 29 giugno 1867: le sue spoglie riposano presso la basilica romana dei Santi Giovanni e Paolo.

Tra gli altri passionisti illustri elevati all'onore degli altari si ricordano i santi Gabriele dell'Addolorata, Vincenzo Maria Strambi, Innocenzo dell'Immacolata, Carlo di Sant'Andrea e il Beato Domenico Barberi; anche le sante Gemma Galgani e Maria Goretti sono particolarmente legate alla congregazione (la prima in quanto figlia spirituale dei passionisti, l'altra perché furono i passionisti a promuoverne la causa di canonizzazione).


Le Passioniste

Paolo della Croce volle affiancare alla congregazione un ramo femminile costituito da religiose di clausura e a Tarquinia nel 1771, insieme a madre Maria Crocifissa Costantini, fondò le monache Passioniste.

Esistono inoltre numerose congregazioni femminili dedite all'apostolato attivo aggregate alla congregazione. Tra le maggiori: le Suore Passioniste di San Paolo della Croce, fondate nel 1815 a Firenze da Maddalena Frescobaldi per la riabilitazione delle traviate; le Suore della Santa Croce e Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, fondate dal passionista Gaudenzio Rossi insieme a Elizabeth Prout nel 1851, per l'assistenza alle giovani operaie; le Figlie della Santa Passione di Gesù e Maria Addolorata,sorte in Messico nel 1896; la Congregazione Missionaria delle Sorelle di Santa Gemma Galgani di Lucca.

Nel corso del '900 sono sorti anche vari istituti secolari, come le Missionarie Secolari della Passione.


Attività e diffusione

I passionisti si dedicano alla predicazione dei ritiri e delle missioni popolari e a alle missioni estere. Oltre ai tre voti di povertà, obbedienza e castità, comuni a tutti i religiosi, emettono quello di propagare la devozione alla Passione di Gesù.




Fonte tratta da Flavio Garreffa

martedì 15 febbraio 2011

Vita di San Giuseppe Moscati


Giuseppe Moscati nacque il 25 luglio 1880 a Benevento, settimo tra i nove figli del magistrato Francesco Moscati e di Rosa De Luca, dei marchesi di Roseto. Fu battezzato il 31 luglio 1880.
Nel 1881 la famiglia Moscati si trasferí ad Ancona e poi a Napoli, ove Giuseppe fece la sua prima comunione nella festa dell'Immacolata del 1888. Dal 1889 al 1894 Giuseppe compì i suoi studi ginnasiali e poi quelli liceali al " Vittorio Emanuele ", conseguendovi con voti brillanti la licenza liceale nel 1897, all'etá di appena 17 anni. Pochi mesi dopo, cominciò gli studi universitari presso la facoltà di medicina dell'Ateneo partenopeo.

E' possibile che la decisione di scegliere la professione medica sia stata in parte influenzata dal fatto che negli anni dell'adolescenza Giuseppe si era confrontato, in modo diretto e personale, con il dramma della sofferenza umana. Nel 1893, infatti, suo fratello Alberto, tenente di artiglieria, fu portato a casa dopo aver subito un trauma inguaribile in seguito ad una caduta da cavallo. Per anni Giuseppe prodigò le sue cure premurose al fratello tanto amato, e allora dovette sperimentare la relativa impotenza dei rimedi umani e l'efficacia dei conforti religiosi, che soli possono darci la vera pace e serenità. È comunque un fatto che, fin dalla più giovane età, Giuseppe Moscati dimostra una sensibilità acuta per le sofferenze fisiche altrui; ma il suo sguardo non si ferma ad esse: penetra fino agli ultimi recessi del cuore umano. Vuole guarire o lenire le piaghe del corpo, ma è, al tempo stesso, profondamente convinto che anima e corpo sono tutt'uno e desidera ardentemente di preparare i suoi fratelli sofferenti all'opera salvifica del Medico Divino.
Il 4 agosto 1903, Giuseppe Moscati conseguì la laurea in medicina con pieni voti e diritto alla stampa, coronando così in modo degno il " curriculum " dei suoi studi universitari. A distanza di cinque mesi dalla laurea, il dottor Moscati prende parte al concorso pubblico indetto per l'ufficio di assistente ordinario negli Ospedali Riuniti di Napoli; quasi contemporaneamente sostiene un altro concorso per coadiutore straordinario negli stessi ospedali, a base di prove e titoli. Nel primo dei concorsi, su ventun classificati, riesce secondo; nell'altro riesce primo assoluto, e ciò in modo così trionfale che - come si legge in un giudizio qualificato - " fece sbalordire esaminatori e compagni ".
Dal 1904 il Moscati presta servizio di coadiutore all'ospedale degl'Incurabili, a Napoli, e fra l'altro organizza l'ospedalizzazione dei colpiti di rabbia e, mediante un intervento personale molto coraggioso, salva i ricoverati nell'ospedale di Torre del Greco, durante l'eruzione del Vesuvio nel 1906.
Negli anni successivi Giuseppe Moscati consegue l'idoneità, in un concorso per esami, al servizio di laboratorio presso l'ospedale di malattie infettive " Domenico Cotugno ". Nel 1911 prende parte al concorso pubblico per sei posti di aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti e lo vince in modo clamoroso. Si succedono le nomine a coadiutore ordinario, negli ospedali e poi, in seguito al concorso per medico ordinario, la nomina a direttore di sala, cioè a primario. Durante la prima guerra mondiale è direttore dei reparti militari negli Ospedali Riuniti. A questo " curriculum " ospedaliero si affiancano le diverse tappe di quello universitario e scientifico: dagli anni universitari fino al 1908, il Moscati è assistente volontario nel laboratorio di fisiologia; dal 1908 in poi è assistente ordinario nell'Istituto di Chimica fisiologica. Consegue per concorso un posto di studio nella stazione zoologica. In seguito a concorso viene nominato preparatore volontario della III Clinica Medica, e preposto al reparto chimico fino al 1911. Contemporaneamente, percorre i diversi gradi dell'insegnamento.
Nel 1911 ottiene, per titoli, la Libera Docenza in Chimica fisiologica; ha l'incarico di guidare le ricerche scientifiche e sperimentali nell'Istituto di Chimica biologica. Dal 1911 insegna, senza interruzioni, " Indagini di laboratorio applicate alla clinica " e " Chimica applicata alla medicina ", con esercitazioni e dimostrazioni pratiche. A titolo privato, durante alcuni anni scolastici, insegna a numerosi laureati e studenti semeiologia e casuistica ospedaliera, clinica e anatomo-patologica. Per vari anni accademici espleta la supplenza nei corsi ufficiali di Chimica fisiologica e Fisiologia. Nel 1922, consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, con dispensa dalla lezione o dalla prova pratica ad unanimità di voti della commissione.
Celebre e ricercatissimo nell'ambiente partenopeo quando è ancora giovanissimo, il professor Moscati conquista ben presto una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere. Queste ricerche di pioniere, che si concentrano specialmente sul glicogeno ed argomenti collegati, assicurano al Moscati un posto d'onore fra i medici ricercatori della prima metà del nostro secolo.
Non sono tuttavia unicamente e neppure principalmente le doti geniali ed i successi clamorosi del Moscati - la sua sicura metodologia innovatrice nel campo della ricerca scientifica, il suo colpo d'occhio diagnostico fuori del comune - che suscitano la meraviglia di chi lo avvicina. Più di ogni altra cosa è la sua stessa personalità che lascia un'impressione profonda in coloro che lo incontrano, la sua vita limpida e coerente, tutta impregnata di fede e di carità verso Dio e verso gli uomini. Il Moscati è uno scienziato di prim'ordine; ma per lui non esistono contrasti tra la fede e la scienza: come ricercatore è al servizio della verità e la verità non è mai in contraddizione con se stessa né, tanto meno, con ciò che la Verità eterna ci ha rivelato. L'accettazione della Parola di Dio non è, d'altronde, per il Moscati un semplice atto intellettuale, astratto e teorico: per lui la fede è, invece, la sorgente di tutta la sua vita, l'accettazione incondizionata, calda ed entusiasta della realtà del Dio personale e dei nostri rapporti con lui. Il Moscati vede nei suoi pazienti il Cristo sofferente, lo ama e lo serve in essi. È questo slancio di amore generoso che lo spinge a prodigarsi senza sosta per chi soffre, a non attendere che i malati vadano a lui, ma a cercarli nei quartieri più poveri ed abbandonati della città, a curarli gratuitamente, anzi, a soccorrerli con i suoi propri guadagni. E tutti, ma in modo speciale coloro che vivono nella miseria, intuiscono ammirati la forza divina che anima il loro benefattore. Così il Moscati diventa l'apostolo di Gesù: senza mai predicare, annuncia, con la sua carità e con il modo in cui vive la sua professione di medico, il Divino Pastore e conduce a lui gli uomini oppressi e assetati di verità e di bontà. Mentre gli anni progrediscono, il fuoco dell'amore sembra divorare Giuseppe Moscati. L'attività esterna cresce costantemente, ma si prolungano pure le sue ore di preghiera e si interiorizzano progressivamente i suoi incontri con Gesù sacramentato.
Quando, il 12 aprile 1927, il Moscati muore improvvisamente, stroncato in piena attività, a soli 46 anni, la notizia del suo decesso viene annunciata e propagata di bocca in bocca con le parole: " È morto il medico santo ". Queste parole, che riassumono tutta la vita del Moscati, ricevono oggi il suggello ufficiale della Chiesa.
Il Prof. Giuseppe Moscati è stato beatificato da S. S. Paolo VI nel corso dell'Anno Santo, il 16 novembre 1975 e il 25 ottobre 1987, in Piazza San Pietro, il Papa Giovanni Paolo II, lo ha dichiarato Santo.


Fonte tratta da www.ministridimisericordia.org

domenica 13 febbraio 2011

VI Domenica delle ferie del Tempo Ordinario - Anno A : Mt 5,17-37


Meditazione del giorno 
Sant'Ireneo di Lione (circa130-circa 208), vescovo, teologo e martire 
Contre le eresie IV,13,3 ; SC 100, 525
La Loi enracinée dans nos cœurs
        Ci sono dei precetti naturali della Legge che già conferiscono la giustizia; anche prima che la Legge fosse stata  data a Mosè, degli uomini osservavano questi precetti, e sono stati giustificati dalla loro fede e sono stati graditi a Dio. Questo è confermato dalle parole: «Fu detto agli antichi: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». E ancora: «Fu detto: Non uccidere. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,21)... e così via. Tutti questi precetti non implicano né la contraddizione, né l'abolizione dei precetti precedenti, ma il loro compimento e la loro estensione. Come ha detto il Signore stesso: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli» (Mt 5,20).

        In cosa consiste questo superare? Prima nel credere non più soltanto nel Padre, ma anche nel Figlio suo, ormai manifestato. Lui infatti conduce l'uomo all'unione con Dio. Poi, nel fare, invece che dire senza fare – perché loro «dicono e non fanno» (Mt 23,3) –, e nell'evitare non soltanto le opere cattive, ma anche il desiderarle. Insegnando questo, non contraddiceva la Legge bensì compiva la Legge e radicava dentro di noi le prescrizioni della Legge... Prescrivere di astenersi non solo dagli atti vietati dalla Legge, ma persino dal loro desiderio, non indica  un atteggiamento  che contraddice e abolisce la Legge; ma che la compie e la estende.

Fonte tratta da www.vangelodelgiorno.org